Il Realismo francese

Contesto e caratteri principali del Realismo francese

La ricerca di una descrizione oggettiva della realtà è già presente nell’arte francese alla fine del percorso degli artisti romantici Théodore Géricault e Eugène Delacroix e sfocia nella nascita del Realismo, corrente artistica che si sviluppa in Francia negli anni Quaranta dell’Ottocento. Il principale esponente è il pittore Gustave Courbet, altre importanti figure sono Jean-François Millet e Honoré Daumier.

Dal punto di vista letterario il Realismo francese nasce come polemica nei confronti del precedente Romanticismo, sebbene questo sentire non sia ancora completamente spento; il Realismo afferma che l’arte deve rispondere a valori più concreti e a necessità reali, contestando l’inutilità del sogno romantico.

L’influenza della filosofia del Positivismo sulla corrente artistica del Realismo francese

Il sentire e il contesto sociale cambiano anche in virtù dello sviluppo e della diffusione della filosofia del Positivismo: nel 1830 il filosofo Auguste Comte pubblica l’opera Corso di filosofia positiva, presentando la corrente che impererà in Europa fino al Novecento. Il Positivismo esalta le doti umane e il progresso infinito e continuo che porta sempre a risultati migliorativi: si fa grande affidamento sulle capacità umane e sulla scienza.

La visione della realtà che scaturisce da questa filosofia è basata sull’approccio scientifico esperienziale che prevede una coscienza concreta e solida di ciò che circonda l’essere umano, opponendosi all’interpretazione emotiva tipica del Romanticismo, che permetta all’umanità di governare e modificare gli elementi del mondo. La società stessa è osservata con distacco scientifico e tutto viene ricondotto al meccanicismo e al determinismo.

Nell’arte il Realismo restituisce dignità ai più deboli, rendendoli i soggetti delle opere. Così il Realismo francese diventa anche denuncia: le classi meno abbienti vengono rappresentate prive di ogni idealizzazione in tutta la loro povertà, evidenziando le disparità che caratterizzano la società.

Jean-François Millet, uno dei maggiori autori del Realismo francese

Il pittore Jean-François Millet è un esponente del Realismo francese appartenente alla scuola paesaggista di Barbizon (località francese a cui è collegata). Millet rielabora in atelier gli schizzi presi all’aperto, senza però perdere la freschezza e l’autenticità del bozzetto e rifiutando di scendere a patti con la tradizione accademica.

Con Millet si parla spesso di una lettura religiosa: le scene sono sacre nell’onestà, nella moralità, nella dignità delle figure e nei gesti nei quali si attua la dimensione evangelica. Al contempo, però, i dipinti di Millet si spingono oltre la visione sublimata della campagna tipica dell’Ottocento, diventando un documento della vera condizione della campagna e annullando ogni tipo di idealizzazione, sublimazione e mitizzazione.

Biografia (1814-1875)

Millet nasce nel 1814 in Normandia da una famiglia di contadini. Grazie a una borsa di studio si trasferisce a Parigi per intraprendere una formazione accademica, per poi spostarsi a Barbizon dove entra a far parte della scuola paesaggista, inserendo all’interno dei dipinti del gruppo figure umane in primo piano, in particolare contadini. Millet muore nel 1875.

Le spigolatrici (1857)

Le figure in primo piano sono delle spigolatrici, ovvero donne che chiedevano di poter raccogliere dopo la mietitura le spighe rimaste o cadute a terra. Sono figure reiette, emarginate, le più povere della campagna, che vivono degli scarti e della compassione altrui. Attraverso questo dipinto Millet testimonia una condizione di grave indigenza, tuttavia senza voler fomentare un senso paternalista; al contrario, Millet vuole rappresentare figure dignitose e temprate fin da giovani dalla fatica, che portano valori morali forti e profondi propri della condizione contadina che l’artista conosce direttamente.

Millet sceglie un punto di vista ribassato così da rendere le figure monumentali facendole incombere sullo spettatore e tornendole con un chiaroscuro che le rende statuarie, in modo da rappresentare l’onestà e la dignità morale. Inoltre Millet si allontana dal paternalismo evitando che lo spettatore legga lo sguardo delle figure e dunque negando la creazione di un rapporto diretto: le spigolatrici sono di spalle o di tre quarti e i volti sono solo scorci nell’ombra. Millet non sublima affatto la dimensione esteriore delle figure: le mani sono nodose, le dita larghe e tozze, la pelle scura, le spalle ricurve, i vestiti sporchi e laceri. Non c’è volontà di abbellimento, l’obiettivo è quello di rappresentare la loro moralità e in questo emerge una dimensione religiosa e trascendente.

Millet nel cielo riesce a cristallizzare la sensazione del tramonto, così da trasmettere l’atmosfera del campo e riuscendo a far percepire allo spettatore la fatica che lì si è provata per tutto il giorno e che solo ora è cessata. In primo piano sono presenti tocchi di bianco e ocra che restituiscono la sensazione della rigidità delle spighe tagliate, che si staccano anche dal punto di vista cromatico.

Le dimensioni della tela sono considerevoli, superando il metro di lunghezza; non è più da annoverarsi come bozzetto, tollerato dall’Accademia. Infatti quando viene presentato subisce pesantissime critiche; le tre figure vengono definite “Le tre Grazie degli straccioni” e Millet viene accusato di voler instillare la rivoluzione nelle masse contadine; in realtà Millet voleva solo rendere giustizia a una classe lasciata ai margini, ma ricca di valori.

L’Angelus (1857 – 1859)

L’Angelus è una preghiera fortemente sentita dai contadini, che la recitavano tre volte al giorno: al mattino, dopo pranzo e al vespro, il momento qui rappresentato. Come il suono delle campane (rappresentato dal campanile della chiesa che svetta sullo sfondo), l’Angelus regolava il lavoro contadino concedendo delle pause a ciò che altrimenti sarebbe stato incessante. L’Angelus è anche un momento di raccoglimento e profonda devozione: la donna ha lasciato a terra il cesto e si è chinata sulle mani intrecciate in una preghiera profonda, l’uomo ha piantato il forcone nel terreno e si è tolto il cappello al cospetto della divinità.

La scelta di posizionare le figure controluce con alle spalle un tramonto infuocato e l’infinità del campo ha un significato molto profondo e metafisico: la composizione non presenta nulla di didascalico, ma trasmette un messaggio profondo fortemente sentito dall’artista. L’unico elemento di corredo è il carretto con caricati dei sacchi; la critica discute se fosse già presente nel primo bozzetto di Millet.

La tecnica è molto grossolana rispetto a quella accademica. Millet utilizza molte pennellate ocra a definire il terreno con tutte le sue asperità che la luce radente mette in risalto. Non vi è nulla di verde e armonico, caratteristiche tipiche della tradizione letteraria: rappresenta la durezza della terra.

È presente una forte critica alla società della Belle Époque: al termine della giornata i contadini poveri e stremati dalla fatica hanno ancora la dignità e la forza di rendere grazie al Signore per quel poco che hanno, mentre la vita viziata della città ha messo ai margini la preghiera e la moralità.

Gustave Courbet, maggiore esponente del Realismo francese

Rivoluzionario e forse il più conosciuto tra gli esponenti del Realismo francese, Gustave Courbet è tra i primi a ritrarre l’essenza della vita quotidiana, in particolare di coloro che vivono in condizioni di umiltà, privandola del velo idealizzato che caratterizzava le opere dei suoi contemporanei.

«Bisogna incanaglire l’arte»: per Courbet l’arte non deve più essere la rappresentazione di qualcosa di etereo e consolante e non deve più avere un valore estetico, ma un valore di documentazione. Il pittore realista osserva la realtà che lo circonda e rappresenta senza remore ciò che vede.

Biografia (1819-1877)

Courbet nasce nel 1819 nella cittadina francese di Ornans da una prospera famiglia di proprietari. Da piccolo apprende le basi dell’arte pittorica dal padre, allievo del pittore Antoine-Jean Gros. Courbet viene indirizzato agli studi di diritto, tuttavia quando si trasferisce a Parigi sembra che il suo interesse maggiore sia quello di ammirare le opere del Louvre. È in questi anni che il giovane inizia a frequentare la brasserie Andler, locale in cui si ritrovavano artisti e intellettuali parigini (come il poeta Charles Baudelaire e il pensatore Pierre-Joseph Proudhon) e inizia a produrre una serie di opere in cui è già evidente il distacco dai caratteri romantici.

Nel 1848 partecipa al Salon (l’esposizione periodica di pittura e scultura che si svolgeva al Louvre di Parigi), ottenendo maggior notorietà così da poter inviare altre opere alle esposizioni successive. Quando una delle maggiori opere di Courbet, L’atelier dell’artista, viene rifiutata perché di dimensioni eccessive, il pittore per tutta risposta organizza la mostra Du réalisme, che riscuote moltissimo successo.

Negli anni Settanta dell’Ottocento Courbet inizia a rivestire il ruolo di presidente della Commissione degli Artisti, il cui obiettivo era liberare l’arte dalla censura. L’esperienza politica di Courbet non si limita a questo: ricopre un ruolo di spicco negli anni della Comune di Parigi (quando le forze radicali, socialiste e comuniste provano a prendere in mano il governo della città guidate da idee innovative, tuttavia con scarsi mezzi). Per le sue attività Courbet dovrà scontare sei mesi di carcere e pagare multe salatissime. Ridotto in miseria è costretto a fuggire in Svizzera, dove inizia ad abusare di alcol; questo lo porta a contrarre la cirrosi epatica che causa la sua morte nel 1877.

Funerale a Ornans (1849 – 1850)

Funerale a Ornans è un dipinto grandissimo, tant’è che i personaggi sono a grandezza naturale e di fronte all’opera lo spettatore si sente parte del corteo funebre ritratto: Courbet voleva che il fruitore si sentisse sull’orlo della fossa, aperta di fronte a chi osserva. La messa in scena viene fatta con persone vere: Courbet chiede ai suoi compaesani di posare per un finto funerale, addirittura pensando al suo, sebbene si ritragga in primo piano con uno dei suoi fidi cani da caccia.

La società rimane sconvolta da quest’opera: oltre a essere abituata a rappresentazioni di tipo bucolico, di norma nei dipinti era presente una classificazione gerarchica che rendeva subito evidente chi fosse nobile e chi invece appartenesse ad altri ceti sociali. Courbet sfruttando l’abbigliamento da lutto mescola i personaggi che potrebbero appartenere a qualsiasi classe sociale immortalandone la mediocrità e l’ipocrisia, così da creare una sorta di specchio per lo spettatore che si rende conto che queste caratteristiche gli appartengono. L’opera diventa una dissacrazione della società a lui contemporanea. L’ironia raggiunge il culmine nei personaggi vestiti di rosso, presentati con il naso rosso e le guance rubizze (come avvinazzati).

Per questo Courbet riceve forti critiche. Viene contestato anche il grande formato (3,15 metri x 6,6 metri) che solitamente veniva riservato alle rappresentazioni del mito e della storia, mai per la rappresentazione di un evento considerato banale.

L’atelier dell’artista (1854 – 1855)

Lo stesso Courbet definisce questo dipinto gigantesco (3,61 × 5,98 metri) “allegoria reale”. Realizzato in occasione dell’esposizione universale di Parigi del 1855, diventa il sunto della sua pittura fino a queste date e del suo militare nel realismo. Difatti in quest’opera Courbet intende spiegare l’alchimia della sua pittura, la sua visione dell’arte e come la storia e il mondo vengano nel suo atelier per farsi ritrarre.

Al centro del dipinto è presente lo stesso Courbet intento a tratteggiare con rapidi colpi di pennello un quadro di paesaggio di grandi dimensioni che oltre a diventare emblema della natura riconduce l’origine del realismo alla scuola di Barbizon. L’artista è accompagnato in questa esperienza da un bambino che vediamo di spalle e che nonostante abbia il volto a tre quarti ci restituisce un’espressione meravigliata e la sensazione che abbia la bocca aperta: rappresenta l’onestà e la schiettezza della visione priva dei limiti imposti dall’Accademia. Lo stesso significato è incarnato dal gatto, indipendente e libero, che si trova ai piedi del bambino e che sta giocando con un drappo: un abito tipico della Parigi degli anni Cinquanta dell’Ottocento abbandonato dalla modella. Questa viene ritratta in carne e ossa priva di idealizzazione, simbolo anche lei della schiettezza e dell’onestà di visione, ma anche della nuda verità.

In questo atelier Courbet ha voluto rappresentare “coloro che vivono di morte” (a sinistra) e “coloro che vivono di vita” (a destra). I primi sono quelle persone che non sono libere, ma sono soggiogate da necessità e limiti che possono essere economici, morali o fisici. Non a caso a sinistra dietro al dipinto del paesaggio appare un manichino disarticolato che rappresenta l’Accademia, la quale studia l’anatomia, ma poi la snatura piegandola alla ricerca dell’estetica. Il manichino in qualche modo ricorda anche la posa di un Cristo crocifisso, rappresentando i limiti delle tematiche accademiche.

Sempre a sinistra, vicino al teschio emblema della morte, Courbet rappresenta una donna accasciata al suolo intenta ad allattare un bambino: è la rappresentazione dell’Irlanda, in quegli anni vittima di gravissima carestia. Courbet rappresenta chi è soffocato dalle necessità dell’esistenza: dietro ritrae suo nonno, mercante, che sta osservando la proposta fatta da un venditore di stoffe. Non soltanto le necessità primarie limitano la libertà degli esseri umani, ma anche l’ambizione economica. Contrariamente, alle spalle del nonno viene raffigurato un operaio con le mani in mano, che simboleggia le masse che non trovavano possibilità di lavorare. L’altra figura femminile presente è una prostituta e rappresenta la miseria, l’essere costretti a vendersi per soddisfare le necessità della vita.

In primo piano, ancora a sinistra, si vede un cacciatore con dei cani (Courbet è amante della caccia e rappresenta spesso i suoi cani) che guarda divertito degli oggetti al suolo: un cappello piumato, una chitarra, un pugnale. Questi oggetti rappresentano il Romanticismo che ormai è stato superato dalla concretezza, assimilabile al cacciatore. Dietro viene rappresentato un rabbino e sullo sfondo un sacerdote: anche la religione con i suoi precetti e la sua moralità bigotta per Courbet costituisce un limite, poiché impedisce alle persone di ragionare liberamente. Qualcuno sostiene che le figure in armi sullo sfondo siano da interpretare come rappresentazioni delle sollevazioni popolari del ‘48.

A destra vengono invece rappresentati “coloro che vivono di vita”: sono gli intellettuali, coloro che per vivacità e possibilità, per il fatto di avere una cultura sono liberi dai limiti della società e possono ragionare liberamente anche andando controcorrente. A questo gruppo appartiene lo scrittore francese Champfleury, due figure di mercanti (i committenti più fidati di Courbet) e il poeta Charles Baudelaire, vicino al quale doveva essere stata tratteggiata la sua amante dell’epoca, prima che il poeta chiedesse a Courbet di cancellarla. In fondo si trova il filosofo Pierre-Joseph Proudhon.

Una delle prime ragioni di contestazione de L’atelier dell’artista è che lo sfondo e l’ambientazione sono molto confusi. La luce restituisce la sensazione di trovarsi all’interno, tuttavia Courbet rappresenta come in traslucenza dei paesaggi. Infatti il soggetto dell’opera non è solo il suo atelier, ma la sua missione di artista che non può essere ridotta all’atelier materiale: Courbet utilizza un’iperbole per dire che si occupa anche di quello che c’è al di fuori. Questa scelta molto moderna rende possibile un’osmosi costante tra studio, storia e contemporaneità e si allontana dalla finitura accademica, che al contrario porta a piena compiutezza l’opera.

Altre opere di Courbet

Altri importanti dipinti di Courbet sono Gli spaccapietre (1849), che attraverso la rappresentazione cruda e schietta della realtà denuncia la società e la fatica del lavoro; Fanciulle sulla riva della Senna (1857), in cui Courbet critica la borghesia e lo stile accademico rappresentando la quotidianità e la realtà; L’origine del mondo (1866), il cui audace realismo intende essere un inno alla potenza vivificatrice della donna e dell’eros, sottolineando la relazione che intercorre tra fecondità, vita e sessualità.

Honoré Daumier, vignettista e pittore del Realismo francese

Honoré Daumier è noto per la sua capacità di deformare la realtà mettendo in luce ingiustizie e difetti umani. Attraverso questa presa in giro di tutto il genere umano Daumier sferza chiunque nella sua verve polemica che lo condurrà anche verso la corrente del Realismo francese, facendo dell’arte uno strumento di lotta politica.

Biografia (1808-1879)

Daumier nasce nel 1808 a Marsiglia. Grazie al successo dell’opera poetica del padre nel 1816 si trasferisce con la famiglia a Parigi e mostrando inclinazione per il disegno nel 1823 si iscrive all’Académie Suisse. Dopo un apprendistato, Daumier inizia a collaborare con giornali umoristici: la sua dote satirica e disegnativa gli permette di diventare un vignettista, sebbene non si fermi alla trascrizione grafica. Infatti Daumier realizza anche una serie di piccole sculture policrome in terracotta con le stesse caratteristiche delle sue caricature. Daumier muore nel 1879.

Vagone di terza classe (1862 – 1865)

Ci sono varie versioni di questo dipinto: la prima è molto grafica, mentre le altre hanno una lettura più pittorica. Il soggetto è interessante: finora la rappresentazione del treno, innovativo mezzo di trasporto, rappresentava la celebrazione del progresso, tuttavia nessuno si era mai occupato dei passeggeri.

Daumier sceglie il vagone di terza classe, a cui apparteneva. I toni lividi e le luci basse rendono l’idea del fetore, dell’aria pesante che si trova in questo ambiente dove sono pigiate le persone del popolo costrette a viaggiare su dure panche di legno. I soggetti sono popolani e questo si deduce dall’abbigliamento, dal tratteggio dei volti scavati e rugosi, dalle giacche lise, dai capelli spettinati. Anche dagli atteggiamenti si deduce il ceto dei personaggi: la signora in primo piano trattiene un canestro con dei viveri; accanto a lei c’è una donna che allatta il neonato che ha in grembo: questo gesto veniva fatto dalle balie, dalle popolane, non dalle signore di alta borghesia (tanto meno in pubblico). Il bambino sulla destra probabilmente è reduce da una giornata di lavoro: si è assopito ed è crollato sul sedile accanto alla donna anziana. Qualcuno ha ipotizzato che si tratti di un gruppo familiare, oppure potrebbero essere emblemi dell’età dell’essere umano.

Daumier inserisce tre persone con il cappello a cilindro: si tratta di nobili, mescolati al popolo. Sono fuori luogo, non era fattibile trovarli su un vagone di terza classe, allora l’autore lo fa nella finzione della sua pittura. Daumier da un lato fotografa la condizione della classe sociale meno abbiente con poco lirismo e con crudezza, dall’altro inserisce del sarcasmo nel veder collocati fuori posto dei nobili e vederli a disagio.

La lavandaia (1863)

Daumier in quest’opera rappresenta una madre con una bambina mentre risalgono le scale che portavano al lungo Senna, dove la madre aveva appena terminato di lavare i panni che tiene arrotolati sotto al braccio. La bambina fatica a salire l’erta delle scale e quindi viene aiutata dalla madre; la piccola tiene in mano un pentolino con la cenere che serviva per sbiancare i tessuti.

Questa scena rappresenta il determinismo. Siccome la situazione della bambina è la stessa della madre, la condizione della piccola è già segnata: sarà anche lei una lavandaia, non potrà riscattarsi salendo nella scala sociale. È inoltre presente una citazione a Millet: l’opera ricorda Le spigolatrici (1857) nel controluce teatrale che non permette di vedere il volto delle figure, le quali sono molto plastiche e monumentali, potenti.

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